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ultimo aggiornamento 31/08/2020

Giorgio Lupano: “Campanile reinventava la lingua italiana. Ha creato uno stile, come poteva la critica capirlo subito?”

Intervista a cura di Rocco Della Corte




Protagonista di grandi spettacoli teatrali e di interpretazioni cinematografiche e televisive altrettanto di spessore, Giorgio Lupano ha una formazione professionale completa e si è diplomato nel 1993 alla Scuola del Teatro Stabile con Luca Ronconi. Ha esordito al Cinema con “Il manoscritto del Principe” di Roberto Andò, mentre sul piccolo schermo ha dato il proprio volto a personaggi delle principali serie tv italiane (“RIS”, “Orgoglio”, “Sospetti”, “Paura di amare”, “Il restauratore”, “Il paradiso delle signore”). Nasce tuttavia come attore di teatro e ha interpretato grandi classici. Ritiene Achille Campanile uno dei suoi autori preferiti, regalandoci diverse definizioni della sua produzione letteraria.

Giorgio Lupano, lei ha cominciato come attore di teatro alla Scuola del Teatro Stabile di Torino. Quali sono i ricordi più forti di quel percorso formativo che l’ha poi lanciata sul palcoscenico? Ha incontrato Campanile nei suoi studi?

Ho frequentato la Scuola dello Stabile di Torino nel primo biennio della sua storia: era appena stata creata da Luca Ronconi ed era una creatura strana, curiosa, che suscitava interesse. I nostri “saggi” di fine anno (Pilade e Calderon di Pasolini) sono stati dei veri e propri spettacoli del cartellone dello Stabile, e furono seguiti da critici, registi, attori. Il fatto che la Scuola fosse stata creata da Ronconi, e che lui fosse il nostro principale docente, ci ha fatto sentire dei privilegiati: per dei ragazzi di vent’anni che cominciano a studiare teatro aver avuto la guida di una personalità, e di un affabulatore, di quel calibro è stato un imprinting potente. Abbiano affrontato diversi autori nei due anni di studi, ma mai Campanile.

Fra i suoi primi lavori a teatro opere di Shakespeare, Pasolini, Garcia Lorca. Ha iniziato subito con degli autori impegnativi. Cosa si prova ad impersonare un ruolo tratto da un grande classico, immagino tra emozione e responsabilità?

Il pubblico ha delle aspettative sui testi che conosce o sulle opere autori famosi… Shakespeare va fatto così, Ibsen cosà, Amleto deve essere più pallido, Clitennestra più feroce… Io, da attore, cerco non mettermi in quest’ottica e ovviamente di seguire il disegno della regia. Ci sarà sempre qualcuno che non sarà contento (feci una edizione de “I parenti terribili” fedelissima al testo di Cocteau, e qualcuno scrisse: “troppo classica”), ma alla fine quello che conta è il testo, e se è un bel testo troverà comunque il modo di parlare allo spettatore.

Quali sono i requisiti che un testo teatrale deve avere, secondo il suo parere di addetto ai lavori ma anche di lettore, per essere definito un “grande classico”? C’è un retroterra comune ai cosiddetti classici?

Calvino ha detto che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire, e solo il tempo ci può dire se un testo diventerà mai, appunto, un classico: quando un libro o un testo teatrale vedono la luce nessuno può dire cosa ne sarà di loro, neanche il loro autore. La capacità di resistere al tempo, alle mode, ai mutamenti della società e del pubblico, queste sono cose che possono rendere duraturo il successo di un’opera, ma forse un classico offre qualcosa di più: un punto di vista che non perde mai la sua forza, e che continua a spiazzarci e sorprenderci.

Uno dei grandi classici che si è affermato tra i maestri del teatro italiano novecentesco è Achille Campanile. Eppure questa affermazione è stata difficoltosa per la tipologia della sua produzione, soprattutto per chi l’ha sottovalutata. In cosa è complesso comprendere Campanile?

Tomasi di Lampedusa diceva che il romanzo giallo, il thriller, è ingiustamente sottovalutato: la stessa cosa secondo vale per il racconto umoristico, si preferisce dare più dignità alla letteratura “seria”. Se all’inizio della sua carriera Campanile fu sottovalutato dalla critica lo si deve forse alla sua originalità, al suo non essere immediatamente riconoscibile come qualcosa di definito. Era un umorista, ma anche un sagace drammaturgo dalla battuta fulminea, reinventava la lingua italiana, sconfinava nel surreale e nell’iperbole… ha creato uno stile, come poteva la critica capirlo subito? Ha dovuto aspettare di diventare un classico…

Tema molto dibattuto e annoso è quello del rapporto tra i giovani e il teatro. A suo avviso la drammaturgia contemporanea è sottovalutata o sopravvalutata?

È un campo molto vasto quello della drammaturgia contemporanea, si fa una grande produzione di testi in tutto il mondo, ma quanti vengono messi in scena più di una volta? E penso anche ad autori italiani affermati… Ho lavorato in Canada con Michel Marc Bouchard nel suo “Il Pittore di Madonne”: ecco, lui è un ottimo autore contemporaneo che scrive, viene messo in scena, tradotto e rappresentato in ogni parte del mondo; ma di quanti autori oggi possiamo dire che stiano lasciando un segno nel teatro del nostro tempo?

Veniamo ad una grande distinzione teorica messa a punto da Campanile, quella tra umorismo (soggettivo) e comicità (oggettiva). Si ritrova in questa suddivisione categorica del Maestro?

È vero che ognuno ha il proprio senso dell’umorismo e che quindi questo è soggettivo, ma siamo sicuri che la comicità sia oggettiva? Pensiamo a certe affermazioni di beceri figuri che hanno ripetuto tre volte la quinta elementare e poi si sono dati alla politica: siamo di fronte a casi lampanti di comicità involontaria percepita come tale solo da alcuni, mentre ad altri le stesse cialtronaggini risuonano perfettamente famigliari…

C’è un’opera di Campanile che preferisce in maniera particolare, che ha recitato o che le piacerebbe mettere in scena? Perché?

Il primo titolo che mi viene in mente è “Il povero Piero”, anche perché è stato il primo libro di Campanile che ho letto: finirlo e tornare in libreria a prendere tutto quello che potevo trovare di lui è stato un tutt’uno. Non ho mai recitato in teatro Campanile ma, ospite a Rai Radio 2 di un programma condotto da Nino Frassica, mi fu chiesto di leggere un brano di un autore a mia scelta: in quell’occasione lessi “Le seppie coi piselli”. Se potessi scegliere un suo testo da portare in scena opterei sicuramente per “Tragedie in due battute”, ancora più moderno oggi di ieri: in qualche modo in questa opera Campanile ha anticipato, in modo geniale, la stringatezza e la velocità della comunicazione dei nostri giorni, oltre ad averci fornito un esempio delle infinite potenzialità della lingua italiana.

Un altro settore in cui lei è attivissimo è quello del grande e piccolo schermo. Pensiamo ad esempio al successo de “Il paradiso delle Signore”. Fatte le dovute e necessarie differenze con il teatro, quali sono gli aspetti professionali che più le piacciono del mestiere davanti la cinepresa?

Sul set si recita per un unico spettatore, la macchina da presa, con la quale si instaura un rapporto di reciproca sfida e reciproca seduzione: tutto è più piccolo, intimo, misurato, controllato. E’ sempre lo stesso gioco, ma con regole leggermente diverse.

Concludiamo le interviste facendo commentare un passo letterario di Campanile. Non diamo indicazioni né facciamo domande, lasciamo l’intervistato libero di raccontarci le proprie suggestioni di fronte alla penna campaniliana. Per lei abbiamo scelto un pezzo serio, a dispetto dell’etichetta di umorista che l’autore ha. Si tratta di un estratto da “Se la luna mi porta fortuna”: “È un peccato che lo spettacolo della levata del sole si svolga la mattina presto. Perché non ci va nessuno. D'altronde, come si fa ad alzarsi a quell'ora? Se si svolgesse nel pomeriggio o, meglio, di sera sarebbe tutt'altro. Ma così come stanno le cose, va completamente deserto ed è sprecato.”. A lei la parola in tutta libertà…

Un pezzo serio? Certo, lo è. Ma chissà perché nel leggerlo mi è venuto in mente un altro passaggio di Campanile, tratto da “Agosto moglie mio non ti conosco”
“La quarta ed ultima giornata del nostro racconto si apre al castello di Fiorentina, che soleva destarsi ai primi raggi del sole. Più precisamente si destavano le donne: ché, quanto al padrone di casa, ci voleva il bello e il buono per indurlo lasciar le piume. Giorgio Pavoni era un poco pigro e, per vincer l’orribile difetto, aveva da tempo incaricato la donna dai servigi di indurlo ad alzarsi con la persuasione, visto che con la forza non ci riusciva. (…) In queste occasioni la vecchierella doveva indurlo a saltare dal letto, decantandogli le bellezze del creato e la freschezza dell’ora mattutina, ed enumerandogli i vantaggi della vita attiva.”
A seguire troviamo i maldestri tentativi della povera vecchina, che sono uno dei passaggi più esilaranti dell’intero libro. Stesso tema, stesso autore, un altro stile… Campanile riesce ancora una volta a spiazzarci e a sorprenderci: non è questo quello che dovrebbe fare un classico?
 


Intervista esclusiva a cura di Rocco Della Corte – Responsabile Ufficio Stampa e Comitato Scientifico “Campaniliana” – Rassegna Nazionale di Teatro & Letteratura – www.campaniliana.it. Si ringrazia Giorgio Lupano per la disponibilità e la gentilezza.