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ultimo aggiornamento 25/06/2020

Da Campanile a Troisi, l’umorismo secondo Vittorio Viviani: “Oggi vedo più rumoristi che umoristi”

Uno dei migliori interpreti del teatro campaniliano a tutto tondo sull'Arte

Intervista a cura di Rocco Della Corte




Vittorio Viviani è uno dei più raffinati interpreti del cinema, della televisione e del teatro italiano contemporaneo. Nato a Napoli, ha esordito sul grande schermo con Massimo Troisi per poi lavorare con altri grandi registi quali Mario Monicelli, Ettore Scola, Riccardo Milani. Molto affermato anche in tv, per i suoi ruoli in “Elisa di Rivombrosa”, “La Omicidi”, “L’onore e il rispetto”, “Assunta Spina”, “Braccialetti Rossi”, “Un medico in famiglia” e “L’Amica geniale” fra gli altri, è attivissimo nel mondo del teatro dove grazie alla sua vis espressiva riesce sempre a conquistare il pubblico. È sicuramente uno dei migliori interpreti di Achille Campanile, per il quale ha speso parole interessanti che sono stimolo di profonda riflessione e rinnovata lettura della produzione campaniliana.

Vittorio Viviani, inizio questa intervista con la più classica e scontata delle domande: quando ha scoperto che la recitazione sarebbe stata il suo mestiere?

Ecco, proprio questo ossimoro, “classica scontata”, è il tema che riguarda la nostra intervista attorno ad Achille Campanile. Un’opera classica è il contrario di scontata (una tragedia greca come può essere scontata?) ma, nella cultura accademica e inamidata, è scontato definire classico un “Classico”. D’altra parte, un abito “classico” può essere scontato, o in saldo. E per un saldo uomo classico, che ha fatto il classico, vestire classico, è un classico. Scontato. Per cui affermo che ho capito da subito che fare il mestiere dell’artista fosse il mio mestiere. Io sono napoletano per cui ho cominciato a Napoli, ovviamente, proprio agli inizi degli anni settanta. Non avevo ancora diciotto anni e mi trovai a recitare come se fosse una cosa naturale. Non ho fatto il classico, non ho fatto scuole di recitazione e, per me, era scontato che facessi questo mestiere. E la fortuna è stata di essere da subito propenso all’umorismo e a frequentarne gli autori più classici. E questo non era scontato.

Oggi esiste un teatro umoristico “puro” come quello proposto da Achille Campanile?

No, si è perso lo stampino. Almeno in Italia. Ma è anche un’epoca che, in genere, vuole il grido, il tono forte, la frase sensazionale. Nella cultura, nella politica e nella vita. Non grandi umoristi ma grandi rumoristi. Qualcuno c’è, penso a Stefano Benni, a Michele Serra anche se su una chiave più sociopolitica. Non mi vengono in mente né scrittori né drammaturghi, né sceneggiatori di film o serie tv. Le serie tv sono molto importanti perché sono una parte considerevole del narrare oggi. Per gli sceneggiati tv, in passato abbiamo avuto grandi autori umoristici, dico solo due nomi: Ugo Gregoretti e Nanni Loy. E per il varietà c’erano Metz e Marchesi, per dirne due. Certo, Campanile quando faceva il critico televisivo intuì subito le contraddizioni del mezzo, oggi puntualmente verificate e moltiplicate alla ennesima potenza. In teatro non si sa scrivere un testo di umorismo puro, ma neanche impuro, misto, spelacchiato, con una molecola. Niente. È tutto molto serioso, o seriosamente impegnato, o ineluttabilmente comicarolo. Il più grande drammaturgo umorista è stato Eduardo De Filippo. Nel cinema c’erano Fellini, Maccari, Age, Scarpelli, Flaiano. E il mio grande amico Ettore Scola. Ma, ripeto, è l’epoca, è lo spirito del tempo. All’estero è diverso. Il famoso umorismo inglese tiene sempre, basta vedere la loro produzione di teatro e film. Anche i francesi hanno una loro solida tradizione umoristica che rinnovano sempre. E Campanile era famosissimo in Francia. E anche negli Stai Uniti: non solo in letteratura, ma soprattutto nelle serie tv dove si creano dei veri capolavori di scrittura drammaturgica. Ma qui molto conta l’umorismo ebraico. Fenomenale.

Proprio Campanile fu al centro di diverse polemiche, ai suoi tempi, perché il pubblico e la critica si dividevano tra feroci detrattori e sfegatati estimatori. Notevoli sono le contestazioni che placò lo stesso autore con interventi ‘alla Campanile’. Come mai un tipo di produzione teatrale così raffinata portò ad una tale divisione tra i fruitori?

Proprio perché era raffinata! Non fu il primo né sarà l’ultimo. È il destino degli artisti che sono fuori dal coro. Anzi, che rilevano le magagne, i peccatucci, i conformismi del coro. Campanile, pur affermando che non si sentiva un fustigatore dei costumi ma un cronista della sua epoca, di fatto scardinava il perbenismo di certa borghesia e l’autoreferenzialità dei soloni accademici. E dei critici, di solito perbenismi e soloni insieme. Ripeto, nella storia non fu il solo. Boccaccio fu criticato, e pure Manzoni coi “Promessi sposi”, Gioacchino Belli si censurò da solo. Eduardo Scarpetta fu fischiato quando scrisse e mise in scena “Il figlio di Iorio” che parodiava, con arte sublime, “La figlia di Iorio” di D’Annunzio e fu addirittura denunciato. Ci fu una causa che vide contrapposte due fazioni, pro e contro. Vinsero i sostenitori di Scarpetta che, però, non mise mai più in scena l’opera. D’altra parte, i detrattori di Campanile di cosa l’accusavano? Forse di campanilismo? Ma anche loro ne facevano una questione di campanile. E potremmo aggiungere: come mai, quando la RAI fece il programma “Campanile sera”, Achille Campanile non c’era? Campanile s’era rivoltato con i rai fulminei? Lui stesso affermò: “Campanile di sera, Achille si dispera”: E poi c’è l’antica questione del rapporto tra l’artista e i critici. Nella prima metà dell’ottocento, il grande poeta ed epigrammista napoletano Marchese di Caccavone (Raffaele Petra), maestro dell’umorismo, scrisse un famoso epigramma dove paragona i critici agli eunuchi, e dice: il critico sorveglia le arti come quello le odalische, e di giorno e di notte tutte le vigila e nessuna ne fotte. Lunga vita agli artisti criticati.

Una delle grandi distinzioni campaniliane riguarda la netta separazione fra “comicità” e “umorismo”. Lei trova che sia corretto separare queste due forme d’arte?

Si, lui diceva che “L’umorismo è soggettivo, nasce dalla visione dello scrittore; il comico è oggettivo perché nasce dai fatti stessi”. Se lo afferma Campanile, allora è vero e non discuto. Però, penso a qualche grande artista: i tre fratelli De Filippo, Titina, Eduardo e Peppino (nomi in ordine di apparizione al mondo) agli inizi degli anni trenta del novecento fondarono la Compagnia “Il Teatro Umoristico dei De Filippo”. Si reputavano umoristi. E lo erano. Eduardo fu un maestro dell’umorismo. Sosteneva che “L’umorismo è una lama molto più puntuta della tragedia e molto più efficace del comico sfacciato. L’umorismo picchia più duro e va assorbito dall’umanità”. E basta vedere tutte le sue commedie. O meglio, tragedie umoristiche. O umorismo tragico. E poi c’è l’umorismo ebraico: il Teatro Yiddish, i Fratelli Marx, Jerry Lewis, Woody Allen, le storielle ebraiche. Azzardo a dire che la naturale propensione della cultura ebraica all’umorismo, a ridere di sé peraltro, a trattare con un certo piglio il Signore, provenga dalla Bibbia. Azzardo ancora e dico che la Bibbia può essere considerato anche un gran libro umoristico, e in quanto tale va preso sul serio. La storia di Giobbe, azzardo ancora, è umoristica: un signore probo e onesto, in salute, felice, ricco e con una bella famiglia a cui viene tolto tutto e viene afflitto da mille malattie. Soffre ma non muore. E lui sopporta e ancora sopporta, non si lamenta. I suoi amici gli dicono che il Signore l’ha voluto punire per qualcosa di male che aveva fatto e lui soffrendo dice: “Ma nulla ho fatto!” Non si lamenta ma, a un certo punto, inizia a chiedere al Signore: perché, perché, perché? Tremila perché. E il Signore, che aveva voluto tutto ciò, gli si rivolta pure inalberato, in malo modo. Gli fa una cazziata e poi, forse pentendosi, rimette tutto a posto. Questo è umorismo, per me. Umorismo tragico, su cui si fonda una fede, attenzione. Per questo l’umorismo è fondamentale. Comicità o umorismo? Il grande Totò li racchiudeva entrambi. Ma nessun altro è Totò. Quindi, separiamo.

Oggi la distinzione è ancora netta oppure si è andata assottigliando, sfumando sempre più la differenza?

Mi sono molto dilungato nella risposta precedente dove credo di avere anche risposto a questa domanda. Oggi più che mai la distinzione è netta. Sono due pianeti lontanissimi, non vedo umoristi ma, ripeto, solo rumoristi.

Qual è l’opera di Achille Campanile che le piacerebbe mettere in scena e perché?

Io ho messo in scena e interpretato diverse opere di Campanile combinandole insieme in un unicum di umorismo tragico, appunto. E ogni anno metterei in scena ognuna delle sue opere. In questi tempi di covid-19, di lockdown, di dolore ma anche di assurdità esistenziali, metterei in scena “Il povero Piero”. La tragedia: i tantissimi morti. L’umorismo: quante condoglianze, quante telefonate, quanti telegrammi si son dovuti fare pensando a cosa dire, scrivere. Sopraffatti dal dolore ma anche dalla tragica mancanza delle parole opportune. Il tutto con la mascherina sul viso.

Il suo esordio al cinema è stato con un mostro dell’umorismo spontaneo come Massimo Troisi: il ricordo di quell’esperienza e del grande genio partenopeo?

Si, fu uno dei miei primi film. Ecco, Troisi era un grande artista e un grande umorista. Con raffinatezza e sottigliezza scardinava regole, luoghi comuni e perbenismi. E, in questo, era il degno erede di Eduardo. Il film era “Pensavo fosse amore e invece era un calesse”. Già il titolo si inserisce nell’alveo della manipolazione delle parole e dei modi di dire. Alla Campanile, possiamo dire. I nostri incontri furono deliziosi. Senza formalismi o fronzoli. Entrambi molto understatement. Credo che mi avesse scelto anche per le cose che facevo in teatro e per il mio stile. Umoristi entrambi. Mi raccontò il film con una semplicità estrema, senza retorica. A togliere e non a metter, come si dice nel nostro ambiente. E sul set fu la stessa cosa, poi una prova, uno sguardo e ci capimmo. Mi lasciò anche molto spazio per improvvisare, sicuro che mi sarei mosso nello stesso suo stile. E così fu. Dopo, non ci siamo più frequentati ma quell’incontro lo porto nel cuore, oltre che nel curriculum.
Si dice che i meridionali, e in particolare i napoletani, abbiano l’umorismo nel DNA. Leggenda metropolitana o realtà?

Noi napoletani siamo molte cose, non c’è popolo più variegato e contraddittorio. Volendo prenderla alla lontana, il miscuglio Osco, Greco, Angioino, Normanno e chi più ne ha più ne metta, ci ha dato svariati caratteri. C’è anche quello umoristico, che però ben si contraddice col carattere epicureo. O quello fortemente espansivo: i napoletani cantano e recitano tutti in mezzo alle strade, si dice. Eduardo e Troisi, no. E, se permettete, neanche io. Pero, a Napoli, tutto si tiene e va bene così. Sicuramente, nella grande tradizione teatrale e canora napoletana l’umorismo è predominante.

Qual è il ruolo comico o umoristico, da lei impersonato, che ricorda con maggiore affetto e perché?

Mah, è sempre difficile scegliere tra i personaggi interpretati. D’altra parte, sono quasi tutti “umoristici”, grazie a grandi autori. Shakespeare il più grande. Grande umorista, intendo. Ma c’è un personaggio che c’entra molto con questa nostra conversazione. Anni fa, misi in scena un testo dell’autrice israeliana Anat Gov, che venne a vedere lo spettacolo. Il testo si intitola “Oh, Dio mio!”. Dio in crisi, scende sulla terra e va in analisi da una psicanalista madre di un ragazzo autistico. Io, ovviamente, interpretavo Dio… Una commedia brillante, tenera, commovente, umana. Umoristica. Umorismo ebraico e laico. Grande testo, grande personaggio. Poi, ovviamente, sono affezionato ai miei spettacoli-recital di cui sono autore e interprete di testi e canzoni. Umoristiche, ovviamente.

Achille Campanile ha toccato tantissimi tempi, a parte le battute: pensiamo all’antimilitarismo de “L’eroe”, alla storia della letteratura e dell’antichità con le “Vite degli uomini illustri”. Teatro a parte, la sua narrativa oggi potrebbe rappresentare un mezzo didattico per avvicinare i giovani, tramite la lettura, ad argomenti altrimenti off limits come quelli scolastici?

Sinceramente, non credo che ci siano argomenti off limits nella scuola. Ma quello che bisognerebbe fare è coltivare la capacità critica degli studenti. Non studiare come un peso le opere classiche ma decifrarle, interpretarle, smontarle e rimontarle. Giocare con le opere, direi. Non vivere la cultura come un mattone che grava sulla testa e sullo stomaco. Le opere sono “divertenti” e bisogna coinvolgere gli studenti nel divertimento. Nei miei spettacoli-lezione, chiamiamoli così per capirci, questo faccio, ma per me è semplice, sono un attore e il mio fine è divertire. È qui che diventa necessario, nella scuola, Achille Campanile: è un classico e nello stesso tempo scardina i classici e ci aiuta a decrittarli, divertendoci. Io metterei nel programma anche le “Tragedie in due battute” perché invitano a riflettere, a fare lo sforzo di comprendere lo spirito e riferimenti che ci sono dietro. E poi avrebbero la funzione di far capire ai giovani che i loro giochi di, come dire?, stupidera hanno un senso. Che senza il senso del non sense la vita è senza senso, anche se il non sense un senso non ce l’ha. E figurati la vita. Solo così si trova la propria anima. E, direi, anche il proprio asparago.

Intervista esclusiva a cura di Rocco Della Corte – Responsabile Ufficio Stampa e Comitato Scientifico “Campaniliana” – Rassegna Nazionale di Teatro & Letteratura – www.campaniliana.it. Si ringrazia Vittorio Viviani per la disponibilità e la gentilezza.